Avevo una frase pronta. L’avevo ripetuta dentro di me per giorni, calibrando le parole come se dovessero tenermi in piedi. Ma quando l’ho detta, non ha fatto nessun rumore. Non ha salvato niente. Ha fatto un cenno con la testa, ha guardato altrove, ha detto: “ah.” E in quel “ah” c’era tutto il fallimento del mio linguaggio: l’attesa che cade, il vuoto che resta. Credevo che parlando avrei messo ordine. Che dare forma al dolore lo avrebbe reso più leggero. Invece si è solo mostrato per quello che era: sordo, appeso, mio. Viviamo circondati da una retorica della parola come salvezza. “Parla”, ci dicono. “Nomina”, “racconta”, “esci dal silenzio”. Si dice che dare un nome al dolore lo disattivi. Che raccontare equivalga a guarire. Ma cosa succede quando la parola non basta? Quando arriva troppo tardi, o si spezza? Quando resta in gola, o viene pronunciata davanti a chi non sa, o non vuole, ascoltare? Parlare è diventato un imperativo morale, una prestazione emotiva. Se non lo fai, sei complice. Se lo fai male, sei inadeguato. Ma esiste anche un altro spazio: quello in cui la parola manca, o si ritrae. Per paura, per vergogna, per pudore, per istinto. A volte si tace per proteggersi. Altre volte si tace perché il linguaggio non ha abbastanza muscoli per tenere il peso del vissuto. Ci sono dolori che non hanno grammatica. Che non possono essere raccontati come si racconta un incidente, una delusione, una nostalgia. Certe esperienze, quelle che ti si annidano nel corpo, che ti scavano da dentro, si dicono male, o non si dicono affatto. E quando trovi finalmente il coraggio di parlare, può essere già troppo tardi: l’altro ha già smesso di ascoltare, o ha già deciso che la tua voce non gli serve. È un tradimento silenzioso, eppure chiarissimo. Non tutte le parole salvano. Alcune arrivano come un urlo strozzato. Altre vengono rigettate. Altre ancora non vengono capite, e tu resti lì, nudo di senso, col bisogno ancora acceso addosso. In quei momenti, parlare non cura. Ma testimonia. E allora a cosa serve, la parola? A cosa serve il linguaggio, se non salva? Forse non serve a guarire, ma a esistere. A dire: “è successo”, “è esistito”, “l’ho sentito”. Forse non si parla per essere compresi, ma per non sparire. Non per alleggerirsi, ma per abitare il peso. Non per guarire, ma per stare, anche solo per un attimo, più vicini alla verità di ciò che ci muove. Non ho più frasi pronte. Solo pezzi di voce. Ma anche questo, oggi, è un gesto. E forse, in qualche modo, basta.
Inserisci le tue credenziali di accesso
Hai dimenticato la password?
Inserisci la tua email e ti invieremo un link per resettare la tua password
Clicca OK per procedere
L'email non è stata trovata nel nostro database
Registrati subito!
Modifiche avvenute con successo
Qualcosa è andato storto
Prima di continuare, si prega di inserire un indirizzo di spedizione valido
Via della moscova 40
20121 - Milano
info@humanbit.com