La fine dell’impegno politico delle masse studentesche e operaie in Italia ha sostanzialmente coinciso con l’arrivo di un importantissimo fenomeno della cultura aggregativa: la nascita e lo sviluppo dei centri sociali. Che, a partire dagli anni Novanta, sono stati fucine straordinarie della sinistra extraparlamentare, luoghi di aggregazione culturale, musicale, artistica, ma anche palestre popolari, mense collettive, spazi di mutuo soccorso, dormitori e posti letto per persone senza casa. Ma anche terreno fertile per l’organizzazione della contestazione politica dei governi parlamentari di destra e anche di quelli di centrosinistra. Il centro sociale partiva quasi sempre dall’occupazione fisica di un luogo abbandonato, spesso per incuria dell’amministrazione politica o per conseguenze nefaste di qualche speculazione edilizia. Di conseguenza, già per nascita e definizione nascono come luoghi di contestazione o quantomeno di critica di modelli esistenti. In più, il centro sociale è stato il punto di ritrovo tra collettivi studenteschi liceali e movimenti universitari, distanti anni luce rispetto a battaglie e modalità di impegno, ma appunto “uniti” dalla condivisione di questi spazi. Chiunque abbia frequentato una scuola superiore tra il 1990 e il 2020 e abbia mai fatto quel minimo di esperienza di attivismo politico-culturale, prima o poi ha messo piede in un centro sociale della sua città. Mantenendo fede alla gloriosa tradizione della Sinistra le divisioni ci sono sempre state. Non sempre la linea politica, anche di contestazione, è stata univoca e lineare per i tanti centri sociali italiani, anzi. Le diverse fasi del movimento italiano con i suoi momenti anche più violenti e tragici, come la repressione sanguinaria del G8 a Genova, sono sempre stati accompagnati da grandi divisioni interne al mondo del movimento dei centri sociali. Mi ricordo ancora quando, da giovane liceale milanese si partecipava ai cortei dell’ “autunno caldo”. Il classico spezzone partiva dal centro di Milano, tra cori e striscioni. Spesso, quasi sempre, le prime centinaia di metri di percorso delle manifestazioni erano caratterizzate da botte e cazzotti tra i vari esponenti dei maggiori centri sociali della città. Loro si menavano, il corteo partiva lo stesso e la protesta a suo modo funzionava: migliaia di studenti sfilavano contro la ministra Gelmini e le riforme sulla scuola. Ma quelle scene di pura competizione machista e inutile rimangono emblema di queste assurde divisioni, quasi folkloristiche a pensarci bene. Non solo politica però. La grande capacità di luoghi come questi è stata la forza di promuovere la cultura dal basso, underground, affinché potesse essere accessibile e raggiungibile da tutti, o meglio da tutti i giovani. Prima fra tutte le arti, è stata la musica ad aver caratterizzato il centro sociale come luogo di aggregazione culturale. Diversi tra i più grandi gruppi musicali o cantanti moderni, dallo Stato Sociale a Fabri Fibra, hanno cominciato nei centri sociali, quando ancora il rap o un certo tipo di rock era bannato da qualsiasi luogo mainstream come tv e radio. E se da un lato si esibivano gruppi o musicisti attivi e politicizzati, lo facevano anche quelli meno coinvolti, proponendo testi e contenuti musicali magari non apprezzatissimi da un pubblico comunque attento alle parole. Lo stesso Fabri Fibra, inizialmente celebre per i suoi testi dal contenuto piuttosto misogino, non fu sempre applaudito nei centri sociali, anzi. Dunque i centri sociali hanno affrontato sfide e polemiche nel corso degli anni, ma il loro impatto sulla vita culturale e politica del paese è stato significativo e innegabile. Questi luoghi sono stati fondamentali come spazi di incontro, dialogo e crescita per numerose generazioni di giovani italiani e non solo. Possiamo quindi affermare che nel panorama artistico i centri sociali siano davvero stati la culla di importantissimi generi e sottogeneri poi diventati pop, mediatici e quindi “imborghesiti”. E oggi? Beh oggi sembra quasi che a diventare mainstream non siano più solo i contenuti artistici dei centri sociali ma lo siano diventati essi stessi. È evidente che oltre ai fattori politici, i cambiamenti sociali hanno influito sull'operatività di questi luoghi. Oggi, una parte della protesta si manifesta attraverso i social media, riducendo molto l’affluenza umana nei centri sociali se intesa come espressione dell’impegno politico. Se si smette di essere luogo di politica, racchiudendo cultura e aggregazione sempre sotto il mantello dell’attivismo militante, allora si è costretti a scegliere una via sempre più vicina alla “regolarizzazione” degli spazi, mentre solo in pochi resistono alle pressioni esterne mantenendo la loro autentica identità. L’ascesa dei social network, come principale luogo di interazione e propaganda, e la pandemia hanno evidentemente accelerato il processo di declino del ruolo di contestazione politica, costringendo così i centri sociali a diventare luoghi di “eventi”. Quindi è inevitabile dire che diventare luogo di eventi significa che le priorità diventano altre: regolarizzarsi, gestire la sicurezza e le norme antincendio, pagare fornitori e dipendenti, emettere ricevuta fiscale, adeguarsi al rispetto dei decibel zonali di rumore. Si è passati dalla lotta per la sopravvivenza politica messa in discussione dalla Digos, interrogatori, repressione poliziesca, al timore di denuncia per violazione norma igienico sanitaria sul bancone delle salamelle. Tutto questo avviene perché le alternative sono chiare: sgombero, allontanamento dal contesto cittadino, condanna al settarismo più totale, esclusione da qualsiasi processo anche di contestazione e impegno politico. Alcuni Centri potrebbero continuare a esistere dunque, ma inevitabilmente adattandosi alle sfide del tempo, pur mantenendo rilevanza come luoghi di incontro, cultura e attivismo. Questi potrebbero trovare modi innovativi per coinvolgere le nuove generazioni, forse proprio tramite i social media. Ma facciamoci questa domanda: se i centri sociali sono stati così importante luogo di nascita e sviluppo di cultura non è forse grazie al fatto che fossero i veri contenitori della contestazione politica e dello spirito più giovanile e “ribelle” di questi anni? La rinuncia della loro vocazione originaria, ossia luoghi di scontro politico con i modelli proposti dalla società, non rischia di appiattire totalmente il livello della produzione culturale che cercheranno di portare avanti? Senza cultura non c’è aggregazione, senza aggregazione non c’è politica. Ma senza la ricerca del conflitto politico non c’è voglia di cultura. E siamo tutti appiattiti, davanti a un mondo che abbiamo già da tempo rinunciato a cambiare.
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